POESIE
L'autrice, Angelita Mattioli, titola una raccolta di riflessioni, in forma di poesia, e di immagini, in forma di pittura, L'altra metà. E il primo percorso che l'autrice compie in questa direzione: accostare immagini e parole per narrare la stessa emozione. Ed è anche per chi scrive il primo tentativo di indagare due percorsi separati: la pittura come luogo del gesto, del viaggio, dell'emozione (così ha voluto da più di un secolo la scelta dei seguaci di Vincent), e la poesia come luogo del ritmo interiore (definizione, che possiamo ricavare da un'importante annotazione di Vittorio Sereni: "parola e silenzio coesistono in un testo. L'uno trapassa nell'altra e viceversa"). La relazione tra le due scritture di Mattioli non è immediatamente così evidente: alla drammaticità del segno, nelle opere di pittura, così interiorizzato e sofferto, specie negli ultimi tempi, si contrappone la tenerezza delle parole delle poesie, che scivolano verso un’affettuosità cercata, a volte trovata per coincidenza o per avventura, a volte esplosa come impeto di rabbia. Ricordo che René Char, parlando dell'artista Giacometti, di cui era amico, poetando dei suoi ritratti, utilizza una serie di figure verbali per indicare il ritmo, l'energia, la forza e la bellezza del suo scavo espressivo (nella materia plastica o nella pagina dipinta, poco importa): "il volto dipinto su tela di Caroline - dopo quanti colpi d'artiglio, lividi, ferite? -, frutto di passione tra tutti gli oggetti d'amore, ...”. Riesce il poeta a parlare di pittura rimanendo fedele alla (sua e altrui) poesia. Non credo che sia così facile per chi scrive, accostare i due percorsi di Angelita, anche se sul tavolo di lavoro mi sono circondato di esempi così importanti che anziché sollecitarmi, mi frenano e impediscono il viaggio, se mai ne fossi capace. Perché di pittura qualcosa ho pur scritto; per contro, di poe- sia ho solo azzardato commenti, con la sapienza (limitata) e il retroterra culturale di un lettore appassionato. Mattioli esprime, nelle poesie, un dissidio interiore; più spesso lo evidenzia attraverso aggettivi a contrasto, aggettivi pesanti, memoria intuitiva dei magli, presenza-simbolo della terra in cui vive. Più spesso insegue e rincorre i fremiti di un animo sensibile; e in questi casi, teme l'abbandono, cerca tra le ombre dell'individuale solitudine o si ritrae nei rovelli di una finitudine che ci appartiene come uomini. A volte ancora, trascina con le parole un'insperata tenerezza che ridia vento alle sue aperture - un aquilone che pencola e risale. E in questi ritmi che inseguono quelli dell'animo, in questi versi che sembrano ubbidire ad una geografia interiore piuttosto che alle regole di una tradizione (che Angelita vuole dimenticare) emergono a volte anche impensabili violenze. Disperati sussurri; ma di solito l'Autrice si nasconde e appare quasi all'improvviso, come in una relazione segreta con sé stessa; allora si rincuora, si addolcisce alla ricerca dell'anima perduta. Nelle immagini - e pensiamo soprattutto ai dipinti, lasciando in un diverso spazio le prove plastiche, con cui spesso impegna il suo talento - è venuta nel corso degli anni, scomparendo o lentamente disperdendosi la figura. Mattioli, consapevole della lunga tradizione figurativa, non la esclude - sa di provenire da quella -, ma nemmeno l'insegue. Narrativamente, emotivamente, non ne ha più bisogno. Anche nello sfaldarsi lento e inesorabile della forma, Angelita ha ben saldi i piedi per terra; sa quel che può e deve esprimere. Per questo si ritrova anche nei segni, nei gesti-segni che si contorcono e si sovrappongono, attraverso l'inquietudine di uno sguardo che non vuole più avere punti fermi, riferimenti sondabili. E allora l'unico riferimento è proprio la sua mano che cerca nel vuoto un appoggio, una traccia, un filo da seguire. E lo insegue, ne scorge le potenzialità, le esalta attraverso il colore che guizza come un oggetto mosso galleggiante su un'onda. La forma, alcuni tratti del volto, alcune esili figure, anatomie che hanno il sapore di una proiezione visiva, che giunge sullo schermo attraverso lenti che ne modificano il tratto, emergono a volte, magari anche solo per frammenti, Poi tutto si confonde, si disfa e si ricompone, ritorna per sparire di nuovo, come se l'immagine fosse una presenza che avvertiamo solo nell'assenza; o un'assenza, un'ombra, che giunge al nostro sguardo per accenni, tratti, macchie di colore e solo la nostra tensione di lettori li trasforma in figure. Accenni, frammenti di figure. Lo ha scritto anche lei, e ne troveremo la confessione in alcuni versi. Come se solo nel perdersi della forma, così come nel ricadere nell'incredibile bellezza del segno che emoziona sen- za narrare, l'immagine di Mattioli potesse per incanto - o per magia - riapparire intatta per dare un senso alle cose. Delle cose, della vita. Entriamo, per questa via, attraverso questa duplice dimensione, quando parola e segno, ritmo scandito e gesto coesistono, in una diversa e confrontabile dimensione, quella cercata nell'incontro tra due forme di scrittura in cui l'Autrice si riconosce. Angelita sa che la sua lingua parte sempre dallo sguardo; anche le parole aggallano immagini, sono immagini ritmate e scandite. Parole che cerca, chiama a sé, le raccoglie nell'intimità di un foglio che disvela tutto il suo incontro con la quotidianità dei pensieri. Siamo alla consuetudine di un dialogo che ha iniziato anni fa e in cui continua a ritrovare quelle emozioni - pensieri, sogni, aperture, voli, inquietudini - che definiscono il suo essere: la vita, torse.
Non so, Angelita, se le tue parole appartengano al regno della poesia. Parli di te; provi tenerezze e solitudini, provi una tangibile inquietudine, che è il senso stesso della vita, in molti casi. La finitudine, dico io; quest'inevitabile sparire, in cui tutto sembra confluire, come gli oggetti ruotanti in un imbuto in ci tutto precipita come mosso da una corrente. E forse, proprio nella certezza del limite, nell'incontro che hai pure avuto con quel buio che ci porta verso il luogo nero dove il sogno si spegne e tutto scompare, proprio nell'essere limitato che ci compete, la tua immagine spesso o la parola cercano l'appiglio: e nasce la tenerezza del segno, così precisato e vigoroso, o quel rincorrersi delle parole che sembra- no scivolare verso la nostalgia. Abbiamo da tempo scoperto il naufragio. Ma come l'uomo più in alto nella piramide della "zattera" con il fazzoletto agitato dal vento, cerchiamo contro l'onda che ci sovrasta, l'apertura, lo sbocco, la possibilità di scivolare e riemergere, come i veloci delfini. E tra le onde della vita, trovi l'approdo, l'attimo che ti contorta, nella felicità (e nella tenerezza) di certe cromie che sanno di cielo; nella delicatezza di alcune riflessioni che sembrano aprire, per un attimo il tuo animo; e richiuderlo subito, precipitosamente. Perché tutto rimanga sotteso, mai esibito, mai dichiarato, e tuttavia bevuto fino in fondo, fino all'ultima goccia. Tu parli dell'Altra me/tà: sono probabilmente i due volti di una vita breve e lunghissima, le due esperienze di una ricerca individuale che si scioglie come la neve a primavera e lascia solo un grumo umido di erba secca. Parole e segni ci riportano e ci allontanano, di continuo, dalla realtà; perché essa è sempre presente, nelle virgole come negli "a capo"; in quel segno che a volte ritorna sui banchi dell'Accademia dove ti sei formata, e in quell'altro segno, che dal primo deriva, in cui sembra confondersi il tutto e tutto sparire. Ma l'aquilone, lo sai bene, è così quando prende il vento e vola leggero, in alto, nell'azzurro di quelle primavere che non ci sono più; e rimane aquilone quando ricade, perde il vento e scende in picchiata sbattendo la punta sul terreno primaverile. Hai cercato in questa avventura di essere il doppio volto di una realtà dolceamara: che altro potevi essere? Con una certezza che traggo da Paul Klee; sottolineava il grande pittore - e la sua riflessione si adatta al tuo processo creativo - che "l'arte attraversa le cose; essa porta [la nostra mente] tanto al di là del reale, quanto, e altrettanto bene, al di là di ogni immaginazione". Il suo breve testo, la sua "Teoria dell'arte moderna " è stato scritto nel 1920, quasi un secolo fa. Ma ci appare utile ancor oggi, per tentare di penetrare tra la finitudine delle tue parole e le impennate dei tuoi segni.
Gussago, autunno 2018.
Mauro Corradini
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